Le Premesse
Introduzione
Prevenire, curare, riabilitare: guarire si può
1. La condizione di benessere psichico può essere valutata al meglio come capacità di stabilire relazioni appropriate e soddisfacenti, e di adottare comportamenti adeguati nel far fronte ai diversi cambiamenti – ambientali, relazionali, istituzionali – che si succedono nel corso della vita. Di fronte ai rischi di riduzione, compromissione o perdita di queste capacità, i servizi di salute mentale hanno il compito di prevenire, curare e riabilitare, coinvolgere nella loro azione diversi ambiti istituzionali, soggetti, attori e risorse della comunità.
La prevenzione, in senso lato, non può che riguardare l’organizzazione sociale nel suo insieme, dato che promuovere la salute – e specialmente la salute mentale – significa migliorare le condizioni di vita e rispondere ai bisogni fondamentali delle persone, specie dei gruppi a rischio. È parte del lavoro di prevenzione rendere vivibili gli spazi sociali, favorendo il benessere e lo sviluppo della comunità nel rispetto della natura, delle culture, delle etnie, della fede religiosa; facilitare l’accesso all’istruzione, alla formazione, all’informazione e alla cultura; costruire percorsi di conoscenza, comunicazione e scambio non solo tra le singole persone, ma tra i differenti gruppi sociali.
La cura deve tendere ad evitare che le persone, esposte a una temporanea o permanente condizione di difficoltà, perdano diritti e competenze sociali, dignità e potere nell’esercizio dei loro ruoli (affettivi, relazionali, familiari, produttivi). Nello scongiurare rischi di espulsione e di emarginazione, l’impegno dev’essere applicato a trasformare atteggiamenti e comportamenti basati sui pregiudizi e sull’intolleranza, senza mai trascurare i problemi e i diritti dei familiari, o di coloro che possono essere – anche indirettamente – coinvolti o danneggiati. Gesti, conoscenze, tempi e spazi d’intervento, strumenti e programmi devono essere orientati a valorizzare i significati e i contenuti della sofferenza, l’unicità delle esperienze e delle storie, facendo leva su bisogni e domande di cambiamento che riguardano in realtà il rapporto fra le persone e le istituzioni, tra i singoli individui e l’intera comunità.
A sua volta la riabilitazione, in quanto apprendimento o recupero di capacità, abilità e competenze sociali, deve riuscire ad articolare percorsi differenziati, adeguati alle difficoltà e agli ostacoli caso per caso. Nei suoi obiettivi e nelle sue implicazioni si estende ben oltre i confini del servizio, dato che il lavoro di riabilitazione deve favorire l’uso di risorse e migliorare capacità per difendere, mantenere o restituire poteri e diritti, personali e sociali, nell’esercizio della cittadinanza.
2. Come si traducono concretamente questi criteri e principi – della prevenzione, della cura, della riabilitazione – nell’organizzazione quotidiana dei servizi? Con quali percorsi, attività, programmi? Con quali risorse?
Il sito web che vi proponiamo parla di questo:
– fornisce informazioni utili sul Dipartimento di Salute Mentale: quali e quante strutture contiene, a cosa servono i servizi e come utilizzarli, dove si trovano e come funzionano, che tipo di attività, interventi e prestazioni offrono;
– descrive la mappa del territorio e dei distretti sanitari, indicando le sedi e i luoghi dove diverse competenze si intrecciano nel sostegno a particolari programmi;
– richiama i principi legislativi e ripercorre le tappe che hanno contrassegnato il passaggio dall’ospedale psichiatrico all’assistenza territoriale;
– indica la pluralità dei soggetti e degli “attori” attualmente coinvolti nel campo della salute mentale: oltre alle persone con disagio e/o disturbo psichico e ai loro familiari, agenzie e servizi che intervengono nel territorio, associazioni noprofit e cooperative sociali, enti ed istituzioni locali, volontari/volontarie e privati cittadini.
È questa pluralità – di luoghi, di soggetti, di culture, di risorse – che oggi consente di esprimere più pienamente la domanda di salute, e che autorizza ad affrontare con maggior ottimismo i problemi connessi al disturbo mentale. Nelle prospettive aperte dalla riforma sembra infatti possibile superare il pregiudizio dell’inguaribilità/cronicità del malato di mente, che escludeva fino a non molti anni or sono di considerare la guarigione come un obiettivo da perseguire.
Con la parola “guarigione” intendiamo qui soprattutto l’esperienza attiva del “riaversi”, “rimettersi in cammino”, “recuperarsi”: percorso ogni volta personale ed unico, che impegna chi soffre di un grave disturbo nella riconquista di un’autonomia piena, di soggetto e di cittadino, responsabile di sé in quanto capace di responsabilità verso gli altri, fino al punto da impegnare se stesso in un “lavoro di aiuto” ad altri in difficoltà analoghe.
Maggiori probabilità di recupero e guarigione dal disturbo mentale vengono oggi associate all’introduzione di nuovi e più adeguati interventi farmacologici e psicologici, che possono aiutare a ritrovare ruoli e funzioni socialmente riconosciuti. Ma da soli questi interventi sarebbero insufficienti, se il nuovo assetto territoriale dei servizi non consentisse il protagonismo delle persone con disagio e/o disturbo psichico, dei familiari e dei cittadini che – variamente associati – rafforzano il loro potere di autonomia, di scelta e di decisione, nel perseguire obiettivi di salute e nel difendere i propri interessi.
3. La vera “scoperta” di questi anni, quel che abbiamo acquisito conoscendo la natura dell’esclusione, è che chi soffre di disturbi mentali deve essere prima di tutto aiutato a salvaguardare e conservare i propri diritti all’interno dello spazio sociale: sia nella vita più privata/familiare e quotidiana, che nel tessuto delle relazioni e degli scambi della comunità cui appartiene. Sono diritti che non possono essere sostenuti solo da astratte norme giuridiche ed amministrative, ma da risorse che vanno attivamente ricercate e formalizzate, da azioni e interventi che ne garantiscano l’accesso e l’uso effettivo.
In altre parole il diritto c’è se lo si esercita: va riconosciuto nella concreta esistenza delle persone, nelle forme della loro riproduzione sociale e nei loro percorsi di emancipazione. Se, come molti oggi riconoscono, sono questi gli aspetti centrali del lavoro terapeutico – riabilitativo, si potrebbe dire che l’originalità dell’esperienza di Trieste è consistita, fin dai primi anni ‘70, nell’inventare giorno per giorno le vie di accesso a opportunità e diritti sociali – casa, reddito, lavoro, istruzione e formazione, reti di appartenenza e di socialità – utilizzando risorse e procedure diverse da quelle di norma utilizzate nell’intervento psichiatrico.
Sono oggi numerose le persone con l’esperienza del disturbo mentale attive in associazioni e gruppi per la difesa dei loro diritti, spesso sostenuti da operatori/operatrici, volontari/volontarie o privati cittadini. A loro volta i familiari sono sempre più presenti sulla scena dei servizi: programmi di sostegno, di informazione e riduzione del carico, si realizzano con risultati quanto mai utili nel migliorare le qualità di vita dell’intero nucleo familiare.
In molti casi le opportunità di accedere alle cure, o di avviare percorsi di abilitazione e guarigione, sono a tuttora condizionate da pregiudizi e da conseguenti forme di discriminazione. È un fronte sul quale ci si deve ancora impegnare, a Trieste e in Italia, anche se la chiusura degli ospedali psichiatrici ha prodotto di per sé grandi cambiamenti nell’immagine sociale delle persone con disturbo mentale, migliorando visibilmente le loro possibilità di conservare ruoli e competenze sociali, rendendo realistiche le aspettative di guarigione.
4. “Le credenze feriscono, i fatti aiutano.“: così un documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in occasione della Giornata della Salute Mentale, il 7 aprile 2001. Nei paesi occidentali gli investimenti nei programmi di salute mentale sono cospicui e tendono a crescere. Paesi ricchi come la Norvegia o la Germania dedicano alla salute mentale più del 10% delle risorse sanitarie. Tuttavia l’immagine della malattia mentale, lo stigma, i pregiudizi e i luoghi comuni che l’accompagnano, persistono, col risultato di influenzare negativamente l’accesso ai servizi, i percorsi di cura, l’integrazione sociale e soprattutto la guarigione. E continua a crescere la figura del “matto” pericoloso, inguaribile, irresponsabile, incomprensibile e alla fine improduttivo. Così, investimenti rilevanti si fondano su evidenti pregiudizi e privilegiano la difesa e la sicurezza sociale al prezzo di riprodurre luoghi d’esclusione, procedure restrittive e invalidanti, destini tragici e irreversibili.
Il rischio che si correrebbe quando si incontra una persona con disturbo mentale sembra concretizzarsi nell’imbarazzo dell’incomprensibilità, nella paura della pericolosità, nella pena dell’inguaribilità. Soprattutto intorno all’equazione mattopericoloso, si giocano i clamori mediatici che si avventano addosso a episodi dolorosi, amplificati a dismisura. Esiste invece una vasta documentazione scientifica che dimostra il contrario: le persone con disturbo mentale commettono reati in misura molto inferiore al resto della popolazione. Eppure le politiche e le legislazioni per la salute mentale continuano ad essere condizionate dalla preoccupazione della pericolosità e della violenza, invece che dall’offerta di servizi nel territorio e cure efficaci.
Si dice che sono in aumento i crimini delle mamme nei confronti dei figli: non esiste nessuna evidenza statistica a sostegno di questa affermazione. Anzi, questo crimine, che è diventato mito con Medea, continua ad accadere da allora con agghiacciante ma limitata regolarità. Il luogo comune della depressione pretende di spiegare queste tragedie. Una diagnosi psichiatrica rende assolutamente estraneo e fuori dall’umano questo gesto. Eppure il momentaneo sentimento di rifiuto del proprio figlio, di estraneità e di incapacità appartiene a tutte le donne che diventano madri e questo passaggio è naturale quanto la nascita.
Esemplare è l’estensione della parola depressione. Nel parlare comune essa definisce, aldilà di una condizione clinica, per altro limitata ad un piccolo numero di persone, la gamma più ampia delle esperienze umane. Dalla nostalgia alla tristezza, dalla malinconia alla stanchezza, alla frustrazione, al dolore per una perdita, al lutto, alla disoccupazione, al senso di incapacità e inadeguatezza che talora ci assale. E’ evidente che l’uso della parola “depressione” costringe ad una spiegazione medica e biologica, giustifica l’uso generalizzato dei farmaci ma, soprattutto, sottrae significato alle nostre esperienze e opera fratture talvolta inconciliabili nella continuità della nostra esistenza. Alimenta altri luoghi comuni: ad ogni condizione umana una diagnosi, ad ogni diagnosi un farmaco, uno psicologo, uno psichiatra che risolva il problema. Ma siccome il problema il più delle volte non si risolve, anche perché le condizioni umane non sopportano semplificazioni risolutive, ecco che prende corpo la convinzione dell’inguaribilità.
Eppure, anche parlando di un disturbo mentale severo come la schizofrenia, il giudizio di inguaribilità non regge.
Infatti un terzo delle persone guarisce del tutto e un altro terzo raggiunge la cosiddetta guarigione sociale, cioè una vita “normale” anche se con l’aiuto di un sostegno terapeutico. E nemmeno il restante terzo è inguaribile, tant’è che si definisce “resistente al trattamento”. Vuol dire che dobbiamo continuare a cercare la strada giusta e non arrenderci alla irreversibilità della malattia.
Chi vive l’esperienza del disturbo mentale va incontro a percorsi di ripresa, a cambiamenti che sono tanto singolari quanto diversi. Oggi molti raccontano senza vergogna né imbarazzo la loro personale guarigione. E tuttavia il luogo comune dell’inguaribilità resta il più insidioso. Perché ingigantisce la paura, nasconde le risorse e le possibilità di cura, distrugge la speranza.
Mentre vivere con la schizofrenia non ha impedito ad esempio a John Nash di vincere il Nobel per l’economia, non ha impedito a Gianni di diventare portiere d’albergo, non ha impedito a David Helfgott di girare il mondo con i suoi concerti, non ha impedito a Marina di laurearsi in chimica concludendo il suo dottorato in Svezia e di essere una ricercatrice, non ha impedito a Philip Dick di scrivere i romanzi ed i racconti che lo hanno reso un interprete dei nostri tempi, non ha impedito a Nicole di riprendere il suo lavoro e di diventare la splendida madre che è.
E anche quando sembra che vivere con il disturbo mentale dia una condanna all’isolamento, al delirio e all’ostilità più cupa, anche quando sembra di essere finiti in una trappola è sempre possibile individuare uno spiraglio, una via d’uscita. Sempre che si sia prima di tutto capaci di uscire dalla palude delle credenze e dei pregiudizi.
Giorgio si era chiuso nella stanza, sigillando col nastro adesivo porte e finestre, e la paura di essere avvelenato lo aveva costretto ad un digiuno inesorabile, che lo aveva reso cattivo, perfino malvagio. L’intervento degli operatori del centro di salute mentale, una durissima trattativa, il trattamento sanitario obbligatorio. E poi via da casa, le parole, il farmaco, le cure. E adesso sembra che Giorgio ricominci a parlare a sua madre con meno rancore.
5. Di una cosa siamo convinti: che l’informazione, la conoscenza e la partecipazione consapevole dei cittadini sono requisiti indispensabili a costruire e rinnovare con continuità il sistema dei servizi di salute mentale. Al tempo stesso siamo consapevoli che l’ingresso di un cittadino in un servizio psichiatrico, quando la richiesta di aiuto e intervento viene formulata per la prima volta, continua a rappresentare un momento di grande delicatezza e di rischio. Il tempo che la domanda impiega per essere formulata e giungere ai servizi, le modalità con cui viene trasmessa e recepita, le prime risposte messe in campo condizionano le forme della cura e il decorso della malattia e determinano i risultati che si possono ottenere sul breve, medio o lungo periodo.
Vorremmo che la Guida servisse, fra le altre cose, a ridurre questo rischio: da un lato facilitando l’accesso ai servizi, dall’altro consentendo modalità più efficaci di comunicazione, scambio e conoscenza tra coloro che concorrono alla promozione della salute mentale, e fra i cittadini e i servizi.
Se, come può naturalmente accadere, nel contatto con il Dipartimento di Salute Mentale troverete che qualcosa non va, che le risposte sono assolutamente insoddisfacenti o se vi sembra che si possa fare di meglio, vi preghiamo di farcelo sapere. Sarà nostro dovere ascoltare e promuovere confronti ed eventuali diverse disposizioni di programmi e servizi. Vi ringraziamo intanto per la vostra attenzione e collaborazione.
Giuseppe Dell’Acqua
psichiatra – Direttore D.S.M. Trieste fino ad aprile 2012
aprile 2006
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