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Come funziona il Dipartimento di Salute Mentale
Amministrare un dipartimento di salute mentale, oggi, significa riconoscere e trovare continuità con la storia della chiusura del manicomio, con i processi di deistituzionalizzazione, con i percorsi di crescita e di riconoscimento del protagonismo e dei diritti delle persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale. Il dipartimento deve per prima cosa adoperarsi per portare la maggiore quantità possibile di risorse intorno alla persona, alla sua rete relazionale ed ai suoi bisogni: questo risulta essere una variabile fondamentale per fornire opportunità di emancipazione, di inclusione, di potere (empowerment), di ripresa (recovery). A ben guardare, molte economie aziendali e molti bilanci sociali dei comuni tengono lontanissimi proprio i bisogni delle persone; basterebbe pensare alla diffusa esistenza dei servizi sociali e alla loro irriducibile lontananza, alla presenza dei distretti e alla loro complicata accessibilità. Oppure, nel campo della salute mentale, basterebbe contare le tante risorse che vengono utilizzate nelle strutture residenziali col risultato, ancora una volta, di riprodurre sottrazioni, oggetti, separazioni. Si pensi che una persona in una struttura residenziale costa in media più di 4.000 Euro al mese e di questo denaro poco o niente ha a che vedere con la vita, le relazioni, l’emancipazione della persona stessa. Per raggiungere questi obiettivi di integrazione molti amministratori, direttori generali, programmatori regionali continuano a proporre, e alcuni a sperimentare, la "fine del dipartimento". Vale a dire inserire ed integrare la funzione salute mentale nella più ampia struttura distrettuale. Ci sono buone ragioni, certamente, per sostenere questa forma di organizzazione definita "dipartimento funzionale". La premessa generale di queste buone ragioni è che con la legge di riforma sanitaria del ’78 il diritto alla cura ed alla salute è garantito a tutti, nella stessa maniera. Dunque anche a chi vive l’esperienza della malattia mentale: non più statuti separati per cittadini oggi uguali pur nella debolezza del loro diritto. Le persone con disturbo mentale, affermano altri, sono (devono essere) cittadini come tutti e tuttavia sono portatori di bisogni speciali ed ancora sono oggetto di pregiudizio e luoghi comuni. Dunque, un dipartimento capace di coordinamento e di assunzione di peculiari responsabilità ( come la strenua negoziazione della cura, solo per esempio) che tuteli questi bisogni e diritti deve essere forte, ovvero competente nell’affrontare con larghezza la specificità della domanda e trascenderla nel costruire e sostenere un’organizzazione articolata, accessibile e diffusa. Forte perchè dotato di risposte differenti e molteplici capaci per ridurre ed indebolire i luoghi comuni ed il pregiudizio, nonché di sostenere i processi di integrazione. Proprio per via della sua storia , per essere in continuità con un processo di deistituzionalizzazione, forse il più ampio, profondo e anticipatore che si è verificato nel nostro paese, il dipartimento di salute mentale dell’A.S.S.1 Triestina si trova a vivere con maggiore consapevolezza la dialettica tra clinica e territorio: deve riconoscere persone e non malattie, percorsi di vita e non prestazioni, bisogni di emancipazione e non trattamenti. Non rinunciare alla tensione verso la guarigione clinica e tuttavia prendersi cura della storia, delle relazioni, del quotidiano. Il rischio che sempre si corre è sequestrare la vita con l’alibi della cura, sottomettere la vita ai trattamenti. E’ in questi termini che appare evidente e cruciale la questione della separazione tra sociale e sanitario. Nel recente libro verde per la salute mentale, la commissione del parlamento europeo che vi ha lavorato, tra le criticità che riscontra nei servizi di salute mentale europei, denuncia la persistente separazione, inutile e dannosa, tra i trattamenti sanitari e il sostegno concreto alle persone, tra curing e caring, tra il sanitario ed il sociale. Le forme organizzative e le integrazioni che cerca di scegliere e attuare il dipartimento di salute mentale di Trieste vogliono evidenziare proprio l’intenzione di sanare questa spaccatura. Da molti anni notevoli risorse sono dedicate a quelle che chiamiamo "attività extra cliniche": attività di socializzazione, sostegno ad associazioni e piccole cooperative, borse di formazione e lavoro, sostegno a particolari inserimenti lavorativi e all’abitare, attivazione di corsi e percorsi formativi, ricerca di partner e compagini sociali (cooperative ed associazioni) per la gestione di attività residenziali e ora, sempre più spesso, di sostegno alla vita quotidiana. Lo strumento che abbiamo chiamato "budget individuale di salute", governa sempre meglio programmi terapeutici riabilitativi che tengono conto con molto dettaglio della quotidianità, della socialità, del lavoro, dell’abitare delle persone, della loro singolarità, della diversità dei loro bisogni, delle differenze. Si tratta di un investimento di risorse che vuole contare e investire prima di tutto sul "capitale sociale" di cui ognuno è titolare. Ripensando alla nostra esperienza e a quanto rileva il libro verde è quanto mai opportuno avviare una radicale e profonda discussione intorno a questa (non) ineluttabile separazione. Sempre più i dipartimenti di salute mentale, ma anche tutte le attività sanitarie territoriali, devono poter contare su ampie possibilità di gestione di risorse, che chiamerei indistinte, né sociali né sanitarie, che devono sostenere i percorsi di ripresa, di guarigione, di vita delle persone. Tale questione, che bisogna assumere come centrale nel valutare le azioni di un dipartimento di salute mentale, dà rilievo a un ulteriore problema: quanto l’organizzazione in se stessa, l’aziendalizzazione, e i risultati basati su evidenze economiche debbano prevalere o quanto invece le forme organizzative e le economie devono sostenere obiettivi/evidenze che riguardano valori come diritti e libertà, dignità ed emancipazione. Ovvero, quanto un’organizzazione, in quanto forte, debba essere in grado di far fronte al rischio di nuove oggettivazioni, affermando una visione delle procedure e dello stile di lavoro che tenga conto della centralità delle persone, della debolezza dei loro diritti, della singolarità dei loro bisogni. La mia impressione è che l’aziendalizzazione, così come qualsiasi altra forma amministrativa (usare le risorse, scomporle e distribuirle più o meno equamente, individuando obiettivi chiari ed azioni e percorsi possibili) di per sé non contiene niente che possa ostacolare o favorire un processo di crescita dell’impegno verso le persone, o meglio, dei percorsi di ulteriore sviluppo nella prospettiva della deistituzionalizzazione. Oggi la psichiatria deve rispondere non più solo a domande, in genere improntate al controllo, che le vengono rivolte da altre istituzioni (ordine pubblico, reparti generali della medicina, etc…) o dalla società in generale, ma a domande fatte direttamente dai cittadini. Questa domanda pretende qualità degli interventi, certezza e continuità delle cure, e – perfino – guarigione: cambiamenti possibili. Un’organizzazione di servizi di salute mentale deve saper dire e saper valutare a quali condizioni ottimali può avvenire e realizzarsi un percorso di guarigione da un disturbo mentale. Oggi sappiamo che esistono percorsi di "rimonta" virtuosi, percorsi emancipativi e riabilitativi; virtuosi purché vengano rispettate determinate condizioni: la relazione, la libertà, il diritto, in una dialettica tesa e fortissima tra l’accettazione, il rifiuto, la negoziazione della cura. Se immaginassimo l’aziendalizzazione e la gestione dei dipartimenti soltanto come economia (e questa visione troppo spesso è prevalente), i sistemi organizzativi si pervertirebbero e produrrebbero danni; se invece immaginiamo l’aziendalizzazione come un percorso all’interno del quale si rendono più chiari ed evidenti le domande e le risposte dei servizi in termini di percorsi, trattamenti, opportunità, come accade nelle buone forme di gestione, l’essere azienda sanitaria non può che favorire e rendere più forte la speranza che la guarigione diventi davvero un obiettivo concreto ed accessibile. Riconducendo questo discorso alla realtà della mia regione ci si potrebbe chiedere, ad esempio, come mai in quasi tutti i dipartimenti si spende mediamente la metà di quanto si spende a Trieste. Questo dato, letto come risultato, potrebbe portare alla conclusione che una gestione capace di spendere meno sia la più apprezzabile. Se su questo si insiste gli operatori e i dirigenti finiscono per far propria questa immagine di gestione e di economia come se fosse un dato di realtà immutabile, una sorta di prescrizione al risparmio contro l’idea dello sperpero. Seguendo tale logica, anche i familiari, le persone con disturbo mentale, i cittadini, gli operatori delle cooperative finirebbero per incorporare questo dettato, accettando acriticamente qualsiasi assenza di risposta, qualsiasi maltrattamento. Tradurre la gestione di un dipartimento di salute mentale in attività focalizzate solo in queste economie, significherebbe indebolire i servizi, distanziandoli dalla ruvidezza della quotidianità, fino a renderli inutili. E’ evidente che proprio questo è il senso malinteso dell’azienda, della gestione, del rigore amministrativo. Le aziende sanitarie si trovano ad aver già predefiniti capitoli di spesa "intoccabili" (generalmente i reparti ospedalieri e i farmaci), e l’unica spesa comprimibile resta proprio la psichiatria, insieme alla tossicodipendenza, all’intervento con i bambini, insomma i servizi del territorio che si riconfermano così marginali. Si tratta di attaccare questa logica che non è molto diversa, nel suo determinismo, da quella che giustificava l’esistenza, quella volta costosa, del manicomio. Tuttavia è più grande il rischio che letture che usano in termini catastrofici le definizioni di azienda, aziendalizzazione offrano alibi al non fare. Gli operatori dei servizi, di fronte al vissuto di un gigantesco apparato economico e amministrativo si sentono deprivati del loro ruolo, della loro professionalità, della loro autonomia e, paradossalmente, di fronte allo spessore delle domande di qualità dei cittadini, rispondono demotivandosi e deresponsabilizzandosi e rinviando ad una fantasiosa immagine "delle risorse che servono" per la soluzione dei problemi. E’ la stessa risposta che i direttori fornivano quando si lavorava per il superamento del manicomio, quando dicevano: "certo che lo chiuderei il manicomio, se me lo facessero fare, se avessi a disposizione altre risorse, nuovo personale…". Vi è, infine, un altro aspetto da sottolineare, che sembra contraddire il precedente: l’azienda può definire linee ed obiettivi, e introdurre elementi ordinativi nelle procedure e nei programmi degli operatori e di maggiore certezza per i cittadini. La definizione di procedure, di linee-guida, così come la trasparenza e la valutazione possono antagonizzare le psichiatrie che fino ad ora hanno dominato il campo, improntate alle ideologie della "libera scelta ", delle autonomie professionali e che in realtà riproducono nel pubblico il modello privato libero-professionale. Era del tutto evidente che il manicomio non poteva rispondere ai bisogni singolari e differenti delle persone costretto com’era dalla rocciosa indiscutibilità del mandato sociale, da culture quanto mai astratte e basate sull’oggettivazione dei comportamenti piuttosto che sulla peculiarità della vita e dei contesti delle persone, da bilanci rigidi e limitati alla riproduzione dell’istituto. E appare altrettanto evidente che oggi le programmazioni regionali, le aziende sanitarie e, per esse, i dipartimenti di salute mentale rischiano di non rispondere ai singolari bisogni se non ricercano scelte di campo e strategie per uscire dalla costrizione dei bilanci irrimediabilmente limitati, delle programmazioni tanto distanti quanto astratte, basate su medie omologanti piuttosto che sulle peculiarità delle persone e dei contesti. La scommessa, nel nostro lavoro, allora nel manicomio come ora nei territori non è altro che governare il cambiamento, ossessivamente il cambiamento, attorno alle persone. (Tratto da: Giuseppe Dell’Acqua, "Aspetti evolutivi dei servizi
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