Franco Basaglia
L'uomo e la cosa
di Franco Rotelli (1983)
Questo testo – per la commemorazione pubblica di Franco
Basaglia, Istituto Gramsci di Trieste, 1983 – è debitore per alcune
importanti osservazioni a Franco Fergnani e soprattutto a Michelangelo Notarianni
(e per tutte le altre allo stesso Basaglia)
Testo completo: "L'uomo
e la cosa" (.doc 42 Kb)
L'uomo e la cosa
«Parlando di Franco Basaglia il mio timore di rinchiuderlo in un codice,
un'interpretazione, è così grande come è grande la fatica
di parlare di lui dopo dieci anni di lavoro in comune.
Ha detto: «Noi facciamo della pratica, prima della pratica
e poi della teoria. Non facciamo prima della teoria e poi della pratica perché
questo sarebbe un cammino molto più reazionario di quanto voi non possiate
pensare; la teoria è l'a priori scientifico: del vecchio pensiero
scientifico. Questo ci è stato molto rimproverato. Non mi sono difeso,
ho accettato il rischio dell'empirìa. Non avessi accettato questo rischio
avrei riciclato inevitabilmente la teoria antica, quella dei testi e dei manuali
da cui sono venuto. Avrei soddisfatto una forma di narcisismo intellettuale,
avrei tradotto le nuove esperienze dentro un codice e un linguaggio che sarebbe
rimasto lo stesso.»
Chi era cieco (e sono stati molti) ha cercato di leggere nell'insistenza
con cui continuava a rifiutare la teorizzazione della propria esperienza, nell'avversione
con cui guardava ad ogni cultura che potesse frapporsi come schermo alla sofferenza
degli esclusi, la rivelazione di un fondamentale irrazionalismo, di un pragmatismo
con cui si credeva di spiegare le apparenti incertezze della sua condotta politica.
Stava in realtà, in quell'atteggiamento pratico che sospendeva il giudizio
e rinviava il valore della cultura e della scienza al "tribunale del mondo
della vita", il più caratteristico legato di quella che era l'esperienza
filosofica formativa di Basaglia: la fenomenologia di Husserl.
Negli anni tra il 1956 e il 1963 l'incontro con il pensiero fenomenologico esistenziale
ebbe grande importanza per il suo pensiero. Prima di allora i suoi dieci anni
precedenti di attività di psichiatria vengono descritti da lui con durezza:
«In quegli anni il mio contatto con la cultura psichiatrica fu tutto
nell'adattamento pedissequo ai parametri di una scienza che presenta l'oggetto
e gli strumenti della sua analisi solo come dati fissi ed "immutabili".»
L'adesione al pensiero fenomenologico poté essere un primo strumento
di smascheramento del terreno ideologico su cui la scienza si fonda (proponendo
la possibilità di avvicinare il malato mentale, senza i diaframmi impliciti
nella rigida definizione sintomatologica delle sindromi, attraverso la comprensione
delle sue diverse modalità di esistenza). Tema centrale per quegli anni
fu l'analisi del corpo husserlianamente inteso che si sviluppò in concettulizzazioni
tendenti ad individuare nella ideologia del corpo la strutturazione dell'ideologia
medica.
É con questo approccio concettuale che nel 1961 lo psichiatra, l'intellettuale,
l'accademico assunse la direzione di Gorizia.
Anche anni dopo scriveva: «...un'istituzione che intende
essere terapeutica deve diventare una comunità che si fonda sulla interazione
preriflessiva di tutti i suoi membri, dove il rapporto non sia il rapporto oggettivante
del signore con il servo o di chi dà con chi riceve; dove il malato non
sia l'ultimo gradino di una gerarchia fondata su valori stabiliti una volta
per tutte dal più forte: dove tutti i membri di una comunità possono,
attraverso la contestazione reciproca e la dialettizzazione delle reciproche
posizioni, ricostruire il proprio corpo proprio.»
L'approccio fenomenologico è quindi un tentativo di inserire
la medicina in un pensiero che tenga conto dell'uomo nella sua globalità,
per liberarla della natura oggettuale del suo rapporto con il paziente che compromette
fin dall'inizio la validità del suo intervento. La natura oggettuale
del metodo scientifico su cui tutta la medicina positivista si fonda, in psichiatria
è una contraddizione esplicita poiché qui il malato e la malattia
non possono essere considerati come dati oggettivabili dalla scienza, ma coinvolgono
la soggettività del paziente così come quella del terapeuta e,
insieme, il sistema di credenze e di valori cui entrambi fanno riferimento.
Il pensiero fenomenologico esistenziale portava alla ribalta il problema dell'uomo
non più come entità astratta definibile secondo un sistema di
categorie chiuse, ma come soggetto/oggetto di una sofferenza sociale. Si affronta
allora il concetto di etichettamento nosografico come fuga del reale da parte
di una scienza che si è fatta pura ideologia, strumento reificante, campo
del pratico-inerte. La psichiatria , attraverso la diagnosi clinica si è
difesa da un problema che non era in grado di risolvere e che non poteva affrontare.
(L'etichettamento nosografico ha assunto così il valore di un giudizio
che sancisce la distanza tra sano e malato e soprattutto agisce come definizione
di una nuova categoria, di uno status sociale particolare nel quale il malato
viene codificato). La cura, come "preoccuparsi di", come tensione
verso l'altro, come incontro e rischio tra due soggetti scompare e si fa terapia
e reificazione e ospedale e corpo oggetto dell'intervento e ideologia fondata
sul sequestro delle contraddizioni del soggetto, perdita del corpo proprio e
della soggettività del medico come di quella del paziente.
Il nodo centrale diviene allora l'analisi del rapporto tra salute
e malattia. La netta separazione tra l'una e l'altra è individuata per
quel che è: il diretto prodotto dell'ideologia medica.
«Nel momento in cui la salute viene assunta come valore assoluto,
la malattia si trova a giocare un ruolo di accidente che viene ad interferire
nel normale svolgersi della vita come se la norma non fosse racchiusa tra la
vita e la morte. L'ideologia medica, per il suo rifarsi ad un valore astratto
e ipotetico qual è la salute come unico valore positivo, agisce da copertura
a quella che è l'esperienza fondamentale dell'uomo - il riconoscimento
della morte come parte della vita - assumendola su di sé come oggetto
di una esclusiva competenza. Essa cioè distrugge il malato nel momento
in cui lo guarisce defraudandolo del suo rapporto con la propria malattia (quindi
col proprio corpo) che viene vissuta come passività e dipendenza.
In questo senso il medico diventa responsabile all'insorgere di una relazione
reificata tra l'uomo e la propria esperienza inducendo il malato a vivere la
malattia come puro accidente oggettivabile della scienza e non come esperienza
personale.»
Nello stato relativamente arretrato della nostra società
della diversità, dove il positivo si afferma e si conferma sull'esistenza
e l'esasperazione degli opposti (salute e malattia, norma e devianza, ragione
e follia), fonda il valore a la valorizzazione dei primi attraverso la svalorizzazione
del negativo.
Quando assume la direzione di Gorizia, nell'incontro con la realtà
fattuale del manicomio, Basaglia accetta il rischio, si misura sull'incontro:
non potrà più essere intellettuale separato. Nella scelta pratica
tra l'arroccarsi attorno alla malattia epochizzando il malato e riproducendo
astratti separati e arroganti poteri e saperi o epochizzare la malattia come
reificazione dell'altro per accettare il rischio dell'incontro con il soggetto
malato, Basaglia rovescia la scelta che era ed è della gran parte degli
psichiatri. Accetta il rischio e da quella coupure inizia l'iter dello psichiatra
rivoluzionario.
La malattia dapprima messa tra parentesi si rivela attraverso la trasformazione
del manicomio (il processo del praticamento vero) per quel che era: etichettamento,
razionalizzazione, appropriazione istituzionale di una sofferenza ben altrimenti
prodotta nella storia materiale, istituzionale, sociale, interpersonale, del
soggetto. La trasformazione della sofferenza psichica in malattia pone l'esigenza
di una critica pratica di questo stravolgimento, e di una lotta serrata contro
gli apparati pseudoscientifici, istituzionali, economici che tale stravolgimento
operano, istituzionalizzando la sofferenza ad altri fini.
Nella scienza e negli apparati psichiatrici quella sofferenza non è mai
in causa. Si indagano per sindrome cause proprie rintracciate nella migliore
delle ipotesi in un sociale già positivamente esorcizzato come natura,
come dato e non come prodotto storico-sociale. Su queste basi individuare nel
manicomio l'avversario principale avvenne con grande chiarezza! Non era certo
per l'arretratezza italiana, la barbarie della violenza manicomiale contrapposta
alla civiltà dello Stato assistenziale e paterno delle democrazie progredite.
Al contrario, proprio l'attenzione al progresso e alle situazioni avanzate era
venuto l'impulso alla lotta per la distruzione del manicomio, non per la sua
umanizzazione o per la trasformazione in comunità protetta ancora separata.
Aveva invece tradotto e presentato in Italia Asylum di Goffmann in cui la realtà
manicomiale era vista non già come un'arcaica barbarie ma come momento
paradigmatico ed essenziale di una società in cui la norma si allontana
dal nesso effettivo con le cose e si fa rappresentazione, gioco di ruoli in
cui l'unica salvezza possibile diventa la possibilità di una distanza
non a tutti concessa.
Basaglia negava valore alla contraddizione tra modernità ed arretratezza
quanto a quella tra razionale ed irrazionale, tra ragione e follia.
Ammoniva ancora ieri a non dimenticare il manicomio: non come chi ricordi all'operaio
affluente gli zoccoli del nonno a mostrare i progressi compiuti. Piuttosto come
chi ha colto in un momento dell'esperienza storica il disvelarsi allo stato
puro della realtà dell'oppressione, la metafora che illumina di significato
tutta quanta una fenomenologia complessa difficile da cogliere nella familiarità
dispersa delle manifestazioni.
Ma era proprio lo sviluppo coerente e agito di quella lotta contro le concrezioni
istituzionali, contro la scienza rivelatasi come ideologia, contro istituzioni
e saperi che, nati per curare, opprimono, nati per rispondere a bisogni divengono
sopraffazione e risposta non ai bisogni della gente ma ai propri bisogni di
istituzione, che porta Basaglia alla fine degli anni sessanta ad interrogarsi
su caratteristiche socio-economiche del sistema in cui le istituzioni stesse
sono inserite ed a interrogarsi sull'a chi giovi che esse non rispondono che
ai bisogni di riproduzione del dominio.
«La fenomenologia come metodo di indagine e di comprensione della
realtà malata cade a contatto con questa realtà dove è
la distanza stessa tra le elaborazioni concettuali e questa realtà violenta
a mettere in crisi la validità della definizione classica di malattia,
dei limiti di norma che tale malattia trasgredisce e travalica, del concetto
di cura in un'istituzione che non ha nulla di terapeutico e che si serve delle
terapie per coprire il proprio isolamento, la propria violenza e la finalità
esclusoria implicita nella sua esistenza.»
Ma: in ogni dibattito sulla psichiatria non era mai sui bisogni e sui diritti
dell'infermo che si dibatteva.
L'oggetto della critica era nelle migliori delle ipotesi l'autonomia degli psichiatri
dall'ingerenza dello Stato, la libertà della corporazione medica di gestire
interamente il corpo da riparare contenuto sempre in un'istituzione creata a
tal fine.
Il fatto che gli internati nei nostri manicomi appartengono tutti ad una medesima
classe sociale chiariva la funzione delle istituzioni manicomiali in un'esplicita
azione di controllo degli elementi di disturbo sociale dove la malattia ha un
ruolo molto marginale. Come infatti non vedere, nel dilatarsi e nel restringersi
dei limiti di norma, a seconda delle situazioni di espansione e di recessione
dello sviluppo economico di un paese, la relatività di un giudizio scientifico
che di volta in volta muta l'irreversibilità delle sue definizioni?
Come non sospettare che esse siano strettamente collegate e dipendenti dalla
ideologia dominante il cui mantenimento sono deputate a garantire? In che modo
si può presumere di poter procedere ad un intervento tecnico innovatore
in un contesto socio-economico immutato?
Divennero più chiare le implicazioni socio-economiche presenti nella
funzione discriminante e segregatrice delle istituzioni psichiatriche così
come nel riconoscimento pratico della psichiatria come ideologia.
Lo spettro delle soluzioni possibili non esce mai dal controllo assistenziale
della quota di marginalità che di volta in volta viene definita come
tale e ciò a meno che non venga messo in discussione il terreno pratico,
l'oggetto della psichiatria, i criteri della sua determinazione.
In una società più avanzata, l'ideologia della diversità
si muterà nell'ideologia dell'equivalenza, dove salute e malattia, norma
e devianza si omologano in quanto ormai equivalenti di fronte alla produzione,
nel momento in cui la malattia come la salute viene assorbita nel ciclo produttivo.
Qui la necessità del controllo si dilata sempre più e l'equivalenza
e l'omologazione di salute e malattia avviene nella totalizzazione alla produttivizzazione
dell'una e dell'altra.
Di fronte a questo quadro la necessità che la pratica si
trasformasse in prassi collettiva veniva dall'urgenza dell'analisi e dell'incontro
con la "questione sociale" come processo inevitabile.
Resterà da cogliere più analiticamente il nesso esistente nel
pensiero di Basaglia tra "prassi", alienazione, e reificazione.
Partito da una posizione che forse tendeva a vedere hegelianamente l'alienazione
da sopprimere nel carattere di oggettività dell'oggetto, e a leggere
nell'alterità la reificazione della coscienza posta fuori di sé
e da riassorbire nell'auto-coscienza, ben presto contro questa tendenza porrà
il privilegio della pratica come movimento inverso: come ricerca nel carattere
determinato dell'oggetto, nel suo prodursi disumanamente, nel suo disumanamente
oggettivarsi, dell'alienazione da sopprimere.
E la rimozione del fatto che l'ente umano si oggettivi disumanamente, la rimozione
dell'alienazione, soprattutto è rimozione della divisione in classi (che
impedisce il processo di oggettivazione come pura realizzazione di sé
e contemporanea elaborazione dell'altro).
Ma mentre per il marxismo simpliste la scomparsa della divisione delle
classi porterà automaticamente alla caduta dell'alienazione, Basaglia
sarà sempre vincolato organicamente all'arricchimento della critica di
Sartre. Nella lezione di Sarte esiste comunque nei processi di oggettivazione-alienazione-estraneazione
un meccanismo di costituzione del pratico-inerte che si oppone comunque come
vischiosità sull'uomo e la cui inerzia esercita un peso passivizzante
sull'uomo creando le condizioni perché esso venga irretito nell'inerte
e trascinato nella ripetizione e nella routine.
La costituzione di un campo pratico-inerte, di un mondo al participio passato,
è strettamente connessa come la formazione di correnti di abitudine che
adempiono ad una funzione di relè e il cui irrigidirsi determina un ridursi
di disponibilità nell'iniziativa e un decadere della consapevolezza dell'azione.
(L'agire si subordina ad un paradigma a schema-tipo che si separa da esso e
vi si sovrappone dirigendolo e dominandolo. Il pratico-inerte ha origine nella
concezione dell'attività vivente in risultati obbiettivi, socialmente
e tecnicamente determinati che si fissano creando un campo d'inerzia). Il pratico-inerte
non si estingue con il superamento dei rapporti di proprietà e di produzione
capitalistici. Di questo assunto di Sartre vivissima è la consapevolezza
in Basaglia. Ne deriva la coscienza delle istituzioni (e della psichiatria)
come luoghi della reificazione, come terreno anche autonomo di lotta e la coscienza
dell'inerzia nella scienza, negli apparati, nei rapporti interpersonali: l'ideologia.
Citerà spesso la frase di Sartre: «l'ideologia è libertà
mentre si fa e oppressione quando si è costituita». Sa della
necessità di rompere continuamente l'inerzia che si produce contro l'uomo
e la parola "deistituzionalizzazione" ricorrerà in ogni momento.
L'istituzione è il luogo principe in cui si concreta l'estraneazione-alienazione
come reificazione dell'altro e del sé.
Sarà questa antropologia a vivere in Franco, a dargli il
filo conduttore nel suo lavoro dentro Gorizia: dentro la società italiana,
dentro la psichiatria: dentro i suoi rapporti politici intellettuali, dentro
la sua peculiare attenzione ai rapporti con gli altri, dentro la sofferenza
del non escludere mai nessuno, non reificare mai, non solo il malato, ma neanche
l'amico o il nemico, lottando sempre perché l'inerzia venisse rotta,
la soggettività si esprimesse come conflitto, come aggressività,
come corpo dell'altro che si fa di nuovo corpo proprio. Che da questa soggettività
e da quella rottura nasce sì la speranza che compaia alla luce la coscienza
delle disumanità dell'alienazione e la scintilla della rivolta della
classe. Ma egli sapeva che il pratico-inerte non si estingue con il superamento
dei rapporti di proprietà e di produzione capitalistici e che già
ora è tuttavia necessario lottare su di esso.
Sapeva anche che quanto più una società realizza in fatto di omogeneità
attiva dei suoi membri in seguito all'abolizione delle distanze sociali più
gravi, tantomeno la serialità prevale, tanto più si accresce l'autonomia
e la libertà dell'uomo, tanto più facilmente gli aspetti deteriori
della vischiosità pratico-inerte vengono circoscritti e neutralizzati.
E allora una volta capito, attraverso il processo di affrontamento dei bisogni
degli internati che cos'era il manicomio, che cos'era la psichiatria, una volta
che si venivano via via svelando la faccia dell'oppresso e i metodi dell'oppressione,
allora la marcia attraverso le istituzioni della modificazione e della trasfigurazione
della sofferenza in malattia, la critica della neutralità della scienza,
gli fecero riconoscere il '68 e dal '68 fu riconosciuto. Divenne allora più
chiara anche la necessità di essere dentro al processo complessivo di
trasformazione della società italiana e nacque "Psichiatria democratica",
nacquero infinite e pazienti iniziative per collegarsi organicamente alle lotte
sociali in Italia e portare dentro il movimento operaio i contenuti di analisi
critica e di pratica che i tecnici andavano via via accumulando. E nacque e
si sviluppò con Trieste la lotta sulla materialità e l'economia
politica dell'istituzione.
"La borghesia – egli scrive – è riuscita alla fine del
secolo a separare il proletariato dal deviante, a coinvolgere anche la classe
operaia nella sua visione scientifica e naturalizzante della sofferenza".
Non era una consonanza casuale quella con il movimento operaio, anche se era
la più forte delle contraddizioni, quella che avvicinava lotta, organizzazione,
lavoro, esperienza all'esperienza dell'esclusione, alla singolarità della
miseria arresa e svuotata che sono i segni della follia.
La distruzione dell'ospedale psichiatrico di Trieste sarà
allora possibile solo perché le lotte contro l'emarginazione e l'esclusione
diventano, grazie al movimento di Psichiatria democratica, negli anni '70 in
Italia il patrimonio del movimento operaio, delle donne, dei giovani.
Allora la fine del manicomio acquista il suo valore emblematico (e Franco Basaglia
lo celebrerà affermando la nuova fase "dentro il contratto sociale
fuori dalla tutela").
Rimprovererà a vari esponenti della "antipsichiatria" di non
aver saputo cogliere la dimensione politica della psichiatria e delle istituzioni
di controllo o di rinunciare dentro il mantenimento del narcisismo intellettuale
dello psichiatra al rischio della pratica non in un terreno "alternativo"
(che è la solidificazione dell'esistente), ma ben dentro il reale: ciò
che ossessivamente andava definendo come il praticamente vero. Rimprovererà
a certi movimenti sociali il loro rifugiarsi in una alterità agita solo
nel muoversi sul proprio terreno (dentro istituzioni separate o cosiddette alternative)
dotandosi di un'ideologia propria autonoma rispetto alla cultura della classe
avversa e di un sapere diviso.
Questo è dovuto essere terreno di lotta per Basaglia e ci ha insegnato
invece a non demonizzare il potere, a leggere e lavorare dentro le contraddizioni
del campo avverso, che il servo è indissolubilmente legato al padrone
e il padrone al servo, che le separazioni non eludono la servitù, che
per gli oppressi è importante capire che la lotta per la sopravvivenza
di sé e il problema della soggettività, dell'identificazione è
altrettanto materiale di quello del nutrimento e che l'aggressione si associa
ovunque all'incorporazione dell'aggressione.
La lezione di Basaglia e la specificità italiana stanno tutte in questa
contraddizione.
Ha scritto: «Fanon ha potuto scegliere la rivoluzione, per evidenti
ragioni obbiettive ne siamo impediti, la nostra realtà è ancora
continuare a vivere le contraddizioni del sistema che ci determina, gestendo
un'istituzione che neghiamo consapevoli di ingaggiare una scommessa assurda
nel voler far esistere dei valori quando il non diritto, l'ineguaglianza, la
morte quotidiana dell'uomo sono eretti a principi legislativi.»
Nacquero invece una legge nuova, principi legislativi radicalmente diversi,
ma questa non può essere la fine, ma il principio di un'altra fase.»
Franco Rotelli (1983)
|